Come i finti Influencer “fregano” i brand pompando le interazioni sui social
Dai mutui Subprime all’Influencer Marketing
Vi dice niente il nome “La grande scommessa”?
È il titolo di un film. Un bel film. Talmente bello che nell’ultima settimana me lo sono visto ben due volte: una per curiosità, l’altra per appuntarmi i passaggi più appassionanti e significativi.
Ambientato tra il 2005 e il 2007, “La grande scommessa” racconta la storia di un piccolo gruppo di investitori americani che, avendo intuito che il mercato immobiliare sarebbe di lì a poco crollato, decidono di andare controcorrente e scommettergli contro, vendendo allo scoperto.
Una mossa giudicata assurda, ma che alla fine li ha portati a guadagnare milioni di dollari. E questo mentre l’economia mondiale piombava in una delle crisi finanziarie più nere di sempre.
Sapete, però, come hanno fatto a capire cosa stava per succedere?
Ve lo dico io. O meglio, ve lo dice Ryan Gosling, voce narrante del film:
“Mentre tutti stappavano champagne, qualche outsider e dei tipi strani videro ciò che nessuno aveva visto. […] Questi outsider videro la gigantesca menzogna nel cuore dell’economia facendo quello che nessuno aveva pensato di fare: osservarono.”
Proprio così. Invece di dare retta alle banche e alle società di rating, hanno preso le carte e le hanno controllate punto per punto. E lì hanno capito che l’America stava per finire gambe all’aria.
Ma cosa c’entra la loro storia con i Social e gli Influencer?
Diciamo che io ho lo stesso vizio di questi bizzari investitori: non mi sono mai fidato delle voci, né delle rassicurazioni. Quindi controllo sempre, specie quando si parla di numeri.
Di scoperte interessanti ne ho fatte diverse in questi anni, ma alcune mi hanno sorpreso più di altre. E sì, sono proprio quelle che riguardano il Social e gli Influencer. O meglio, i finti Influencer. Quelli che vengono ingaggiati dai brand per dare visibilità a questo o quell’evento, prodotto o servizio, ma che in realtà non fanno altro che generare inutili vortici in bicchieri d’acqua.
In questo articolo voglio spiegarvi perché definisco alcuni di loro come finti, come riescono a infinocchiare le aziende e come mai continuano indisturbati a fare il comodo loro.
Le bibite al lampone, i Social e il Sig. Figo
Al fine di semplificare e rendere più scorrevole il discorso, appoggiamoci a un semplice esempio.
Mettiamo che io sia il Sig. Pino Silvestre, resposabile marketing della Bibite WOW S.r.l., e che mi sia stato dato l’incarico di promuovere su Twitter una nuova bevanda al lampone.
Non capendo nulla di Twitter Marketing, decido di affidarmi a un collaboratore esterno: il Sig. Mario Figo. Forte del suo largo sorriso e di una parlantina niente male, il Sig. Figo si è da tempo guadagnato un discreto seguito sui social e sono molte le aziende che oggi lo contattano per chiedergli di promuovere prodotti, servizi o eventi. E pare che gli riesca anche piuttosto bene!
Quindi chiamo il Sig. Figo, fisso un appuntamento e il giorno dopo vado a incontrarlo.
Una volta lì, gli illustro la situazione, spiego le esigenze della mia azienda (“Fare un po’ di rumore e interazione su Twitter, caro Figo!”) e insieme definiamo i tempi di lavoro e il relativo compenso.
Entrambi soddisfatti, ci salutiamo dandoci appuntamento alla settimana seguente.
Sig. Figo, tocca a te: vai e influenza il mondo!
Stando a quanto ho scoperto analizzando l’attività social dei finti Influencer che conosco e tengo sotto osservazione, il Sig. Figo ha 3 modi per completare il lavoro senza sbattersi troppo.
1. Affidarsi ai fakebot
Per chi ancora non lo sapesse, i fakebot non sono altro che dei finti profili Twitter facilmente acquistabili in Rete che, tramite dei software, possono essere programmati per svolgere TOT operazioni (seguire altri profili, retwittarli, commentarli, mettere cuori, etc.).
Al Sig. Figo, quindi, basterebbe comprare e programmare qualche centinaio di fakebot per fare contento il Sig. Silvestre. Il problema è che il rumore e l’interazione ottenuti sarebbero il frutto della paraculaggine e del lavoro dei robot, non del coinvolgimento di veri utenti.
2. Sfruttare i profili ai quali si ha accesso
Che per aprire un account su Twitter sia sufficiente avere un indirizzo email attivo lo sanno anche i sassi. E questo fa sì che chiunque possa aprirne decine, se non addrittura centinaia.
Quindi, un po’ come abbiamo appena visto coi fakebot, il Sig. Figo potrebbe twittare della nuova bevanda al lampone dal suo profilo personale per poi passare a retwittarsi, cuorarsi o addirittura commentarsi tramite tutti gli altri profili Twitter da lui gestiti.
Questo spiega perché, a volte, approfondendo le interazioni generate da certi tweet, si scopre che queste sono arrivate da: il profilo di una pizzeria di Napoli; il profilo di un’officina di Belluno; il profilo di una boutique di Modena. E così via.
Accade perché dietro a ognuno di quei profili c’è sempre la stessa persona: il Sig. Figo.
3. Crearsi un giro di collaboratori pagati per interagire
Questa è la pratica che, tra tutte, mi eccita di più. Perché è sì organizzata, ma anche casereccia.
Io, Sig. Figo, una volta ricevuto il budget dal Sig. Silvestre, mi preparo i miei bei tweet (o i miei bei post su Facebook, tanto il discorso è lo stesso). Poi vado dai miei amici Piero, Laura, Giovanni, Marco e dico loro: “Ragazzi, se da qui a lunedì mettete like, ricondividete e commentate in modo entusiasta tutto quello che posto riguardo alla Bibite WOW S.r.l., vi do 50€ a testa. Che ne dite?”.
Se la risposta è positiva e la partecipazione è corale, i post del Sig. Figo cominceranno a collezionare ricondivisioni, like e commenti che neanche il Barak Obama dei tempi d’oro. Con la differenza che, rispetto ai fakebot e ai profili gestiti da un solo individuo, qui gli individui sono più di uno e ognuno di loro mette a disposizione il proprio profilo.
La questione assume dei toni grotteschi nel momento in cui, osservando le interazioni dei post pubblicati dal Sig. Figo, si scopre che a commentarli sono sempre e solo gli stessi utenti (Piero, Laura, Giovanni, Marco, etc.), i quali parlano tra di loro in modo esasperatamente esaltato:
- Fantastica questa nuova bevanda al lampone! Mitici quelli di #BibiteWOW!
- Vero? Lo credo anche io! Appena l’ho assaggiata, sono uscito di testa! Grandi #BibiteWOW!
- Ho sempre amato #BibiteWOW, ma con questa nuova bevanda al lampone hanno spaccato!
E così via, dando vita a un imbarazzante teatrino animato da gente apparentemente esagitata, ma che in realtà ha solo un gran bisogno di tirare a campare.
Peccato che tutto questo gravi sulle spalle del Sig. Silvestre, il quale subisce un danno notevole. Il rumore social da lui richiesto, infatti, non doveva mica provenire dalla cricca del Sig. Figo, ma da un pubblico vero e selezionato. Un pubblico che, sulla base di determinate caratteristiche, avrebbe potuto realmente apprezzare la nuova bevanda della Bibite WOW S.r.l..
Pagare gli amici affinché facciano casino sui Social è facile, ma anche del tutto inutile. Se tutti i giocatori fanno parte dello stesso giro, infatti, come può una promozione raggiungere il giusto pubblico? Si perderà tra le spire di un vortice generato in un bicchier d’acqua.
Con buona pace della tanto desiderata visibilità sui social e di chi la richiede.
Ma le aziende ci sono o ci fanno?
Questa è la domanda che mi pongo ogni volta che mi trovo a ragionare su questo tema.
Quando il Sig. Silvestre e il Sig. Figo si rincontreranno e quest’ultimo presenterà i dati dei report (“Con 10 post, ho ottenuto: 5.000 like, 7.000 ricondivisioni e 600 commenti. Per un totale di ben 200.000 visualizzazioni!”), il Sig. Silvestre si renderà conto del fatto che tutto quel rumore è fittizio? Capirà che quella fetta di pubblico potenzialmente interessata al suo prodotto non è stata minimamente raggiunta dalla promozione?
Posto che per capire se un’attività promozionale è stata portata avanti in modo mirato e ragionato è sufficiente dare un’occhiata all’engagement dei singoli contenuti, i motivi che possono spiegare il modo in cui certi soggetti operano sui Social sono soltanto due:
- Le aziende, non capendoci nulla di social, non si accorgono di quando un risultato è pompato;
- Alle aziende basta raggiungere certi volumi d’interazione; se poi questi sono generati da BOT o dagli amici degli amici dell’Influencer di turno poco importa
La domanda, quindi, è: dov’è che finisce l’incapacità di valutare e inizia la noncuranza?
Perché, attenzione: se io investo una, due, tre, ventisette volte in una cosa e quella alla fine non mi porta risultati concreti, alla fine smetto. E se smetto, si smonta tutta la catena.
Voi cosa ne pensate? Sono i finti Influencer che, approfittando dell’impreparazione altrui, fregano le aziende o sono le aziende stesse ad accontentarsi della quantità, senza badare alla qualità?
Io non sono ancora riuscito a darmi una risposta.
Alla prossima!
Se ti è piaciuto questo post, condividilo sui Social e iscriviti alla newsletter!